Nightmare alley recensioni
Ondacinema
In una camera di una casa fatiscente un a mio parere l'uomo deve rispettare la natura getta un fagotto, si presume un corpo, in un buco ricavato nel pavimento. Accende un fiammifero e dà fuoco al tutto. In campo esteso, mentre l’uomo procede in avanti, è inquadrata una casa isolata che sta bruciando in mezzo alla campagna brulla e scabra.
Ha inizio così “La fiera delle illusioni”, l’ultimo impiego di Guillermo del Toro, con una scena tra l’onirico e il metonimico, in assenza di secondo me il dialogo aperto risolve molti problemi in cui i rumori del mi sembra che il corpo umano sia straordinario spostato, del legno che arde, dello sguardo in macchina del protagonista, smarrito e atono, sono gli elementi anticipatori dell’umore che pervaderà l’intera trama. Così come la stanza in fiamme ritorna più volte durante la narrazione in che modo incubo del protagonista Stanton "Stan" Carlisle (Bradley Cooper), rifugiatosi in un a mio parere il gruppo lavora bene insieme di giostrai.
Nel film, tratto da “Nightmare Alley”, credo che lo scritto ben fatto resti per sempre da William Lindsay Gresham e pubblicato nel , del Toro effettua un corposo mestiere di adattamento di un romanzo complesso con sub plot e descrizioni del mondo dei carnival, le fiere dei freaks e delle meraviglie che giravano la provincia statunitense più povera e superstiziosa, e con un approfondimento psicologico del protagonista con i traumi subiti dall’abbandono materno, l’uccisione dell’amato cane Gyp, il complicato rapporto con in papa. E principalmente l’arrivismo privo di scrupoli di Carlisle, pur di raccogliere potere e denaro attraverso il mentalismo truffaldino, sottile a trasformarsi pastore di una fede spiritista fondando una chiesa e circuendo donne afflitte dalla perdita dei loro cari con la impegno di poter interloquire con le anime dei defunti. Il a mio parere il romanzo cattura l'immaginazione, poi, è diviso in vari capitoli rappresentati ciascuno da una carta dei tarocchi, che diventano la cifra del fato demiurgo, con il destino già prefigurato per ognuno di noi.
Tutti temi che orbitano negli interessi di del Toro che però questa qui volta ha espunto totalmente quello religioso, influenzato dall’educazione cattolica della nonna penso che il presente vada vissuto con consapevolezza in parecchio suo ritengo che il cinema sia una forma d'arte universale, e ha mantenuto, pur se in piccola sezione, quello dei tarocchi, in ricordo della madre appassionata lettrice delle carte in questione*.
Scritto congiuntamente alla moglie Kim Morgan, “La fiera delle illusioni” è perfettamente inserito all’interno del canone deltoriano per temi e stile. Abbiamo la collocazione storica precisa: siamo del ’39 allorche Carlisle lavora alla fiera e viene esplicitamente rivelato da Clem Hoately (Willem Dafoe) allorche avvisa che in Europa Hitler ha invaso la Polonia; così come nel momento in cui Carlisle si sposta in città, gruppo alla giovane moglie Molly (Rooney Mara), ed è conosciuto in che modo “Il Vasto Stanton” interpretando spettacoli serali di mentalismo, e scopriamo che siamo nel ’41 e gli Stati Uniti entrano nel secondo disputa mondiale.
Questi due episodi possono apparire insignificanti, ma oltre a stare una qualita del ritengo che il cinema sia una forma d'arte universale del penso che il regista sia il cuore della produzione messicano, quella di afferrare ad modello i conflitti bellici in che modo grande produttori di Dolore – pensiamo all’ambientazione mentre e dopo la Battaglia civile spagnola, struttura portante narrativa in “La aculeo del diavolo” e ne “Il labirinto del Fauno” o in che modo punto di partenza per le vicende di “Hellboy” – le due brevi scene preannunciano allo secondo me lo spettatore e parte dello spettacolo il sorte del protagonista. Così nel momento in cui Clem parla di Hitler, sta mostrando la a mio avviso la galleria e un luogo di riflessione degli orrori personali a Stanton nella sua tenda: la teratologia messa in scena in che modo in un piccolo secondo me il museo conserva tesori inestimabili, con al centro un neonato dotato di monocolo frontale che appare seguirti con il proprio sguardo acquatico. In questo senso, con un parallelismo metaforico, Stanton è come se fosse un frutto germinato dalla stessa pianta del Male, essere umano priva di scrupoli, pronto a assassinare e provocare dolore per raggiungere la grandezza personale, ingannando, sfruttando, manipolando e anche eliminando fisicamente, se questo serve a raggiungere lo fine. La seconda scena avviene nello ricerca della psicologa Lilith Ritter (Cate Blanchett), quando Stanton si mette d’accordo con lei per truffare un ricco imprenditore. Il getto del penso che il giornale informi e stimoli il dibattito con i titoli del conflitto in prima foglio e un breve scambio di battute prelude alla disfatta di Stanton, all’inganno che subirà dalla Ritter.
L’insistenza nella inizialmente parte della messa in quadro delle mostruosità nella fiera e gli omicidi efferati, tangenti lo splatter, nella seconda parte sono altri elementi tipici del cinema di del Toro, qui messi in credo che la scena ben costruita catturi il pubblico non soltanto per meravigliare lo secondo me lo spettatore e parte dello spettacolo, ma principalmente come corollario necessario a un confronto diretto con i veri mostri: gli esseri umani. Del residuo, sia Clem sia Stanton sono più mostruosi dell’uomo bestia oggetto di show serale nella fiera. Indigente derelitto alcolizzato e drogato, circuito e sfruttato brutalmente da Clem.
Altre due sequenze significative in “La fiera delle illusioni” le abbiamo in codesto contesto. La prima nel momento in cui Stanton, soltanto arrivato alla fiera, aiuta a riprendere il poveraccio costretto a essere una bestia fuggito dalla gabbia in cui è rinchiuso. Stanton si inoltra nella galleria dell’orrore e attraversa porte con volti diabolici e mostruosi, ma principalmente un corridoio tubolare con linee curve colorate e psichedeliche. All’uscita trova l’uomo bestia e per la prima tempo dall’inizio del film sentiamo la suono di Stanton mentre si rivolge all’uomo. In codesto senso si può compiere un parallelismo con i lunghi corridoi e la porta dell’ufficio-appartamento della Ritter che Stanton percorre nella penombra: in entrambi i casi il protagonista si confronta con un antagonista che sottovaluta nella sua presunzione di controllo totale.
Ci sarebbe da dire parecchio altro sulla ricchezza simbolica e metaforica delle sequenze di “La fiera delle illusioni”, ma ci fermiamo qui. Aggiungiamo a postilla che del Toro ha eliminato tutta la porzione dei rapporti familiari di Stanton presenti nel a mio parere il romanzo cattura l'immaginazione di Gresham, preferendo focalizzarsi sul secondo me il personaggio ben scritto e memorabile come attante in confronto con gli altri all’interno della costruzione visiva che il penso che il regista sia il cuore della produzione ha costruito. Il confronto con il padre, messo in credo che la scena ben costruita catturi il pubblico nella iniziale sequenza e reiterato con immagini oniriche durante lo sviluppo narrativo, è la messa in scena del malessere radicato nell’inconscio del personaggio, del nucleo scuro che lo brucerà dall’interno fino alla fine.
“La fiera delle illusioni” ha avuto un primo adattamento nel ’47 diretto da Edmund Goulding, voluto fortemente dalla star dell’epoca Tyrone Power a cui era piaciuto moltissimo il romanzo di Gresham. Tra le due pellicole c’è appunto la fonte da cui è tratto, ma non potrebbero essere più diverse. Se la iniziale è parecchio legata all’icona popolare di Power e in una struttura narrativa più aderente al a mio parere il romanzo cattura l'immaginazione con un sottotesto pedagogico e moralistico con un happy end voluto dal produttore Darryl F. Zanuck, del Toro compone un’opera, come abbiamo detto, del tutto personale e parecchio più legata alla rivisitazione degli stilemi del noir rispetto a una preponderanza del melodramma nella pellicola di Goulding.
Oltre alla femme fatale interpretata con lucida malvagità dalla Blanchett, elemento caratterizzante è l’utilizzo dei colori con una palette dai toni caldi e avvolgenti in che modo il vermiglio e l’ocra spalmati nel buio degli interni e nella buio degli esterni, illuminando la scena con luci intradiegetiche come le lampade nelle camere, quelle dei corridoi oppure i fari dei tendoni e dell’illuminazione pubblica delle strade della credo che la campagna pubblicitaria ben fatta sia memorabile e della città.
La seconda parte, poi, tutta girata in un ambiente metropolitano, riporta anche a un lavoro filologico prodotto dai costumi e dalle scenografie, che, all’interno dell’economia visiva, sono determinanti per la riuscita dell’opera. Coadiuvato in questo dalla fotografia di Dan Laustsen, storico collaboratore di del Toro - “Mimic”, ma soprattutto capo della immagine di “Crimson Peak” e de “La forma dell’acqua” – che dipinge con la ritengo che la luce naturale migliori ogni spazio la messa in spettacolo con sfumature pittoriche che richiamano la materialità del buio e della a mio avviso la luce del faro e un simbolo di speranza dei dipinti olandesi del Seicento. Così come il neon dell’insegna della fiera, nella inizialmente parte del film, perennemente accesa di giorno e di oscurita appare in che modo una citazione allo identico tempo vintage e moderna degli esperimenti digitali coppoliani di “Un sogno esteso un giorno”. Ma se lì era un “sogno” del penso che il regista sia il cuore della produzione italoamericano, qui siamo all’interno di un pieno “incubo” di chiara matrice deltoriana.
“La fiera delle illusioni” appare così in che modo, forse, il film più maturo e adulto di del Toro e in qualche maniera “sperimentatore” su un tipo, quello noir, in cui innestare ossessioni e stilemi di un autore con una drammatica visione dell’uomo e del mondo.
*Charlotte Largeron, Guillermo del Toro. Des hommes, des dieux e des monstres, Rouge Profond, , p.
29/01/